L’8 febbraio 2007, nella Chiesa della Santa Croce di Nicotera, dopo non pochi ostacoli legati al reperimento della sacra effige e delle prescritte autorizzazioni ecclesiastiche ha offerto un quadro che ritrae la Santa africana in preghiera davanti al Crocefisso, con sullo sfondo il pianoforte, il villaggio e la vegetazione sudanese. Questo stampo costituisce la 150° copia realizzata dai padri comboniani e destinata nelle loro missioni sparse in tutta la Terra. La cerimonia è stata officiata da Don Sisto De Leo, proposto della Chiesa S. Croce, il quale, durante i tre giorni del triduo, ha raccontato ai fedeli presenti la triste storia della Santa, strappata ancora bambina all’affetto dei suoi cari, da dei negrieri senza scrupoli. Venduta e rivenduta come schiava, era talmente scossa da non ricordare più neppure il suo vero nome. Ai negrieri che, sotto la minaccia di un coltello, le intimarono di stare zitta, non seppe ripetere il proprio nome, sicché costoro, con sarcasmo, la chiamarono Bakhita che in lingua araba significava “fortuna, la fortunata”. Bakhita dovette, quindi, sopportare ogni sorta di sopruso senza potersi nemmeno lamentare, passando da un padrone a padrone quasi fosse un oggetto da utilizzare, dal possedere, a proprio piacimento. L’episodio, comunque, più tragico della sua schiavitù è la stessa Santa a raccontarlo affidandolo alla consorella Maria Fabbretti in un memoriale: “eseguo il disegno convenzionale con farina bianca, l’aguzzina da mano al rasoio e traccia sei tagli sul petto, sessanta sul ventre e quanto sul braccio destro. Come mi sentissi non lo posso dire. Specie quando, con molta forza, strofinò le ferite con il sale per rendere più evidente il barbaro disegno. Quale atroce sofferenza!…”. Bakhita porterà sul corpo per sempre questi segni, segni di appartenenza a quella famiglia di padroni. Ma, evidentemente, il Signore, per lei aveva tracciato un’altra strada. La schiava, finalmente, viene acquistata da un console italiano ed è in questa casa, dopo tante sofferenze, che viene trattata con umanità senza l’uso della frusta. Quando il console deve lasciare precipitosamente Khartoum per l’arrivo del Mahdi (che metterà a ferro e fuoco la città per scacciare gli infedeli) Bakhita viene portata in Italia.
Ma le prove per quest’umile serva africana non erano finite. Di fatti, una volta sbarcata in Italia, il console per compiacere all’amico “regala” Bakhita a una coppia di Mirano Veneto (VC). Bakhita viene accolta amorevolmente dai nuovi padroni e quando nasce la loro primogenita Alice – detta “Mimmina” – accudisce la bambina. Terminati però le sommosse in Sudan il Signor Micheli torna in Africa e qualche tempo dopo richiama pure la moglie. E fu allora che Bakhita e Mimmina vennero affidate all’Istituto dei Catecumeni, come detto. Dopo circa un anno, però, ritorna la Signora Micheli per vendere le sue proprietà per stabilirsi definitivamente in Sudan, ove, nel frattempo, il marito aveva acquistato un importante albergo. Ma di tornare in Africa, ovviamente, Bakhita non ne vuole che sapere e quando la signora vorrebbe trascinarla con la forza, lei con inaspettato coraggio, si ribella. Le sante suore, allora, si rivolgono al loro vescovo e questi al Procuratore del Re. L’Istituto dei catecumeni si trasforma in un Tribunale che vede opposte Bakhita con la sua determinazione a rimanere in Italia e la Signora Micheli che la rivendica come se fosse una cosa propria. Interviene il rappresentante del governo il quale spiega chiaramente alla Micheli che in Italia la schiavitù non è ammessa e Bakhita, una volta giunta in Italia era una donna libera e poteva scegliere con chi stare. Bakhita si sparra in lacrime, decide di rimanere in Italia per offrirsi a quell’unico Dio di cui immaginava la presenza (per la bellezza del creato) senza mai averlo conosciuto. Tra le sorelle canossiane diventa cristiana e accetta i sacri voti. Trasferita a Schio (VC) vi rimane per 50 anni svolgendo le più umili mansioni senza mai perdersi d’animo. La gente, ma soprattutto i bambini, le volevano così bene che cercavano ogni pretesto per starle accanto e farsi accarezzare. Nell’Istituto di Schio Madre Moretta (così veniva affettuosamente chiamata) aveva una parola buona per tutti ma ciò che colpiva di lei (raccontano le consorelle) era quella serenità interiore che solo un’anima straordinaria poteva avere. Madre Moretta muore a Schio l’8 febbraio 1947 e subito la sua fama di santità si espande in tutto il Veneto. Una folla interminabile viene a salutarla per l’ultima volta. Quasi subito inizia il processo ordinario e apostolico, tant’è che il 1° dicembre 1978 viene proclamata l’eroicità delle virtù della Serva di Dio. Il 17 maggio 1992 a Roma, in Piazza San Pietro, Giovanni Paolo II proclama “Beati” nella stessa cerimonia, un monsignore, venuta dal nulla: il sacerdote Josemaria Escrivà de Balaguer e M. Giuseppina Bakhita, che il Papa consegna al mondo e alla Chiesa come “Sorella Universale”. Il 1° ottobre 2000 Bakhita viene proclamata Santa.
Per i “bhakhitiani” (come vengono denominati i soci di Nicotera) aver conosciuto questa umilissima Santa africana ha costituito uno sprone in più per occuparsi dei bisognosi, di coloro che non hanno voce e sono per questo relegati ai margini della società, forti del messaggio evangelico che in ogni povero si nasconde il volto di Dio. Da quasi un anno, concretamente, mettono in alto l’insegnamento dei Figli della Carità Canossiani e della loro capostipite Santa Maddeleina di Canossa, occupandosi di numerosi indigenti di questa Comunità.
Il Presidente del “C.A.S. Bakhita” Michele Melidoni.